Altra lettura da smaltire, l'ultima prima di dedicarmi al recupero dell'arretrato a fumetti, la trilogia fantascientifica "Binti" di Nnedi Okorafor pubblicata su un Jumbo Urania. Sono rimasto abbastanza deluso: una trovata iniziale abbastanza originale e "africana", ma dopo una prima e breve parte appassionante, si perde in un continuo girare intorno alle "seghe mentali" della protagonista che accumula poteri su poteri come se facesse una raccolta punti del supermercato. E tutto per arrivare (stavolta non mi trattengo; se non volete spoiler, saltate alla fine di questo paragrafo) sugli anelli di Saturno dove misteriose creature l'hanno "chiamata"... per chiederle se l'università galattica da lei frequentata merita o no! Ma dài! Neanche il finale de "Il trono di spade" è così inconsistente!
"Jazz Maynard" di Raule & Roger è un lavoro molto interessante. Fatta la tara al formato bonelliano al quale, pare, in Italia siamo condannati (le tavole sono molto sacrificate e il lettering è minuscolo, ma per mia fortuna la vista mi sostiene ancora), un dittico davvero godibile che raccoglie i sette volumi originali.
I primi tre, correttamente raccolti nel primo albo, raccontano un'unica vicenda, quella di tre ragazzi cresciuti a El Raval, quartiere malfamato di Barcellona. Il protagonista è allo stesso tempo un trombettista jazz di talento e un talentuoso ladro (Diabolik gli spiccia casa, per dire), il filippino Teo è la sua spalla, mentre Judas Melchiot è diventato il boss del quartiere. Poi c'è Lucia, la ragazza di Jazz, che fa la giornalista d'inchiesta (e d'assalto) in un giornale di sinistra. Il secondo volume presenta una continuazione della vicenda, non necessaria ma comunque sempre interessante e ben gestita. I disegni piacerebbero a Sauro Pennacchioli perché sono realistici ma non fotografici. Il segno di Roger è elegante, fluido, deformato, personale (azzarderei: un Goya del fumetto). Mi ricorda per certi versi il nostro Palumbo. Insomma una bella e consigliata (magari nella versione originale, per godere appieno le tavole) lettura.
"Bull Rocket" di Oesterheld e Solano Lopez è una serie nata nei primissimi anni 50 sulla rivista argentina Misterix. Inizialmente disegnata dall'italiano Paul Campani, è passata successivamente nelle mani di Solano Lopez che si adegua agli stilemi del predecessore. Diciamo che non ha retto molto bene alla prova del tempo. Costretta in brevi episodi autoconclusivi o a puntate, nel formato orizzontale con tre strisce per pagina come nella scansione narrativa basata su un ricco uso di didascalie di genere letterario, ricorda un po' il nostrano "Gim Toro". Se Lavezzolo univa feuilleton e avventura esotica, Oesterheld si muove più dalle parti di "Martin Mystère": le vicende sono sempre basate su enigmi basati su leggende, creature mostruose o invasioni aliene, e il protagonista (spalleggiato dal giornalista che funge da narratore, come poi anche in "Ernie Pike", e dal meccanico tuttofare Pig) è uno scienziato atomico, pilota e boxeur. La scientificità delle vicende è di bocca buona, ed è inevitabilmente quella più invecchiata. A oggi, una lettura un po' faticosa e con molte ingenuità, ma grazie comunque alla Cosmo per aver proposto questo tassello di storia del fumetto internazionale che non può non incuriosire l'appassionato.
Lo sapete, amo sopra a tutti il fumetto franco-belga Gil Jourdan di
Maurice Tillieux, per i testi insieme divertenti e appassionanti e il disegno che li sposa perfettamente coniugando umorismo e realismo come meglio non si può. Non c'è dunque da meravigliarsi se mi sono goduto con grande gusto questo "Atom Agency" di
Yann e
Schwartz che di quella serie è figlio diretto. I due autori ci presentano una versione etnica dell'investigatore immergendoci nel mondo separato-che-si-integra della diaspora armena nell'immediato dopoguerra: Atom Vercorian, figlio del commissario Tigran, vuole vivere facendo l'investigatore a dispetto dei desideri paterni che lo vorrebbero musicista come il connazionale Aznavour e soprattutto sposato a Sandouie (o comunque a una ragazza armena!). Come nella serie di Tillieux il protagonista ha due "spalle": la volitiva Mimi appassionata di catch e l'ex lottatore Jojo La Toupie. Insieme sono sulle tracce dei gioielli rubati alla Begum (la moglie dell'Aga Khan) e per il recupero dei quali l'assicurazione è disposta a pagare due milioni di franchi. Il testo di Yann scorre ben ritmato, con termini gergali e frasi in italiano messe in bocca alla
villain di casa nostra Erika; i disegni sono un piacere per gli occhi, con attente e sfiziose ricostruzioni d'ambiente, grande senso del movimento e recitazione dei personaggi; lode anche al colorista
Hubert. Se condividete il mio amore per una certa BéDé, un volume da non farsi mancare. Ordinerò molto presto anche il secondo volume "Petit hanneton":
Ho comprato il cinquantesimo numero (traguardo non indifferente per la pubblicazione di un piccolo editore come Menhir) de "il Morto", di
Giovacca e
Gioachini. Temo che sarà l'ultimo che acquisto, perché il posto che avevo riservato alla collana nelle mie librerie è esaurito (già da qualche numero: gli ultimi li ho dovuti infilare di traverso accanto alla pila). Non che mi dispiaccia più di tanto. Le storie, basate sulla ricerca da parte del protagonista Peg-il Morto del proprio passato presentano una certa ripetitività e dopo un po' si fa fatica, nel ricordo, a distinguerle l'una dall'altra. Chiudo volentieri con questo numero dove, per una volta, c'è una coprotagonista che si fa invece ricordare, la Rigoletta del titolo che, lasciata nel numero precedente in una discarica, imbottita di droghe per eliminarla o farla almeno credere una tossica all'ultimo stadio, indossa un rutilante abbigliamento e si dedica a un'efferata vendetta a base di omicidi. In appendice, come sempre, un raccontino autoconclusivo opera stavolta di Giovacca e
Arena.
Confesso che "Sky Masters of the Space Force" di
Jack Kirby,
Dave (e
Dick)
Wood, con gli inchiostri di
Wally Wood e
Dick Ayers, mi ha preso in contropiede. Vedendo le copertine mi ero immaginato una
space opera con astronavi e alieni, invece più che dalle parti di Flash Gordon siamo da quelle di Buck Danny/Dan Cooper: una storia militar-spaziale molto realistica e "scientifica". Onore allo sceneggiatore (nessuna parentela con il piacevolissimo inchiostratore) per essere riuscito a creare "avventure" e situazioni comunque abbastanza coinvolgenti con un progetto così poco appassionante e nel limitante formato della striscia quotidiana. Kirby e Wood, nella prima parte della serie, servono egregiamente il testo regalandoci tavole che soddisfano ampiamente l'occhio. Quando, come si ricorda nei redazionali finali, sono nati contrasti tra gli autori e i titolari del
syndicate, la qualità del prodotto crolla vertiginosamente: Ayers non è neppure l'ombra di Wood, e lo stesso Kirby comincia a "tirare via" in maniera indecorosa risolvendo l'80% delle vignette con primi piani, mezzi busti e addirittura nere
silhouette, mentre anche la rappresentazione dei mezzi tecnologici diventa scarna e appena abbozzata.
Piccola tirata d'orecchie ai responsabili della Cosmo: sparare il nome del più noto Wally Wood in copertina al posto di quello dello sceneggiatore è una "furbata" che si poteva evitare. Mettendo solo il cognome, come nelle firme sulle strisce, si sarebbe resa giustizia al lavoro dello sceneggiatore e comunque "ingannato" il lettore meno attento.
La lettura di due diverse opere d'origine franco-belga pubblicate da Aurea Editoriale mi ha suscitato una riflessione sullo "stato del fumetto". La prima è "Rani" di Van Hamme/Alcante e Vallès, una serie di cappa, spada e... mutanda che, nonostante l'impegno dei tre autori, non riesce a coinvolgere come vorrebbe. La protagonista è Joanne De Valcourt, figlia illegittima dell'omonimo marchese. Quando questi decide di lasciare alla ragazza il suo castello, scatena l'ira del dissoluto figlio Philippe che prima lo uccide e poi briga per liberarsi della sorellastra, riuscendo a farla condannare alla deportazione nelle colonie.
La storia è ben orchestrata, ma fa parte di quei fumetti che... non hanno motivo di essere tali. I dialoghi (forse opera di Alcante?) scorrono in maniera freddamente scolastica, non riuscendo neanche a sottolineare in modo efficace i continui colpi di scena, e il testo non viene aiutato dagli altrettanto scolastici disegni di Vallès che fa il suo lavoro in maniera stiticamente professionale riempiendo le vignette di precisi scenari come richiesto dalle abitudini d'Oltralpe e figurine "fotografiche" abbastanza ingessate (specialmente nelle scene d'azione, che spesso non riesce a descrivere in modo convincente) accompagnate da lineamenti di scuola raymondiana, il tutto servito da un tratto lineare "da rapidograph" che spegne ogni possibile emozione. Un lavoro che, insomma, avrebbe forse avuto più motivo d'essere declinato in forma letteraria, visto che quella fumettistica non gli aggiunge niente, anzi lo penalizza. Si ha l'impressione che l'autore (che pure romanzi di successo ne ha scritti) abbia deciso di realizzarlo come fumetto per meri motivi economici.
Di tutt'altro genere è "I vecchi forni" di Lupano e Cauuet che, seppure mal servito da una copertina tutt'altro che attraente, all'interno è quanto di più "fumettoso" si possa immaginare: una storia dei nostri tempi su vecchi arnesi della militanza di sinistra alle prese con storie d'amore e sindacalismo, memorie e ardori senili, scritta con grande vivacità e ironia, servita dai disegni caricaturali - ma quanto "veri"! - di Cauuet che fa recitare volti e corpi con una spontaneità che ha del magico. Ecco, questo è un tipo di narrazione che trova nel linguaggio del fumetto la sua naturale collocazione, che da esso viene esaltata come non accadrebbe se la si raccontasse in forma di romanzo o cinematografica.
Credo che presterò sempre più attenzione, nella scelta delle mie letture, al discrimine tra "fumetto fumettoso" e fumetto che non è esagerato definire inutile.
Come "Bull Rockett", anche il "Watami" di Hector Germàn Oesterheld e Jorge Moliterni risente del formato di pubblicazione delle riviste argentine degli anni 50 e 60: episodi brevi che costringono gli autori a una scrittura "letteraria", densa di didascalie. Fatta la tara, anche se non tutto ha retto all'esame del tempo, molto apprezzabile l'idea di Oesterheld di narrare una "storia indiana", dove gli unici e indiscutibili protagonisti sono i pellerossa, col loro tribalismo fanatico e spietato e la violenza e la morte come quotidiane compagne di strada. Storie dure, "diverse" e perciò geniali. Nella seconda parte del volume che ospita la ripresa del personaggio dopo anni d'abbandono si gode appieno la bellezza del maturato disegno di Moliterni, portato via troppo presto da un tumore, ma si perde un po' l'originale anima cruda della prima "stagione". Oesterheld riesce a scrivere solo i primi quattro episodi della nuova serie prima di sparire nel nulla, ma già il racconto ha preso la piega romantico-malinconica caratteristica dell'historieta degli anni 70 e il disegnatore, assumendo anche l'incarico di sceneggiatore, l'accentua inserendo pure pesantemente elementi fantastico-magici. Comunque un altro interessante recupero di un pezzo di storia del fumetto da parte della Cosmo.
Non potevo perdermi il "Matana" di Leo Ortolani. Visto che, per godermelo appieno, ho deciso di aspettare di avere tutti e sei i numeri, forse avrei potuto aspettare ancora un po' e comprare la raccolta in volume che sicuramente prima o poi arriverà. Ma almeno ho dato una mano alle edicole, che in questo momento soffrono forse più di librerie e fumetterie.
E il giudizio? Beh, è Ortolani, che altro dire? Mi fa ridere di gusto da sempre (non è un caso se ai tempi delle Edizioni Foxtrot ho accompagnato alla stampa i suoi primi numeri di Rat-Man), e non mi ha deluso neanche stavolta. Certo, il Rat-Matana è un po' meno imbranato del suo alter ego supereroico, ma in compagnia della immancabile trans qui diventata Djanga e del "negro" Isaia, oltre che del clinteastwoodiano Speranza fa comunque girare la storia perfettamente, macinando gag su gag come al solito. In un paio di numeri ci sono anche delle postfazioni di pugno dell'autore che fanno ridere quanto il fumetto. Unico neo, se lo si può definire tale, il formato comic book che per il disegno umoristico ed essenziale di Leo è un po' sprecato (anche se è così che iniziò). Il formato bonelliano del concluso Rat-Man sarebbe stato più che sufficiente.
"Black Poppy" (cioè Papavero Nero) è il nome di un quadrimotore B-17 in uso durante la seconda Guerra Mondiale. Quelle che ci raccontano
Héctor Germàn Oesterheld e
Francisco Solano Lòpez in questa raccolta completa della Cosmo sono le storie dell'aereo e del suo equipaggio nel corso delle dodici missioni di bombardamento effettuate durante il conflitto. I testi, come congeniale allo sceneggiatore, sono d'impianto letterario con gran dispiego di didascalie che permettono di tratteggiare più in profondità le psicologie dei vari protagonisti. Il disegno di Lòpez, come d'abitudine basato sul contrasto di bianchi e neri, fa trasudare le vignette di olio bruciato e fumo, e permette di tratteggiare con colpi di scalpello i volti ben caratterizzati di piloti, navigatori e mitraglieri. Chicca finale, l'apparizione in un episodio dell'altro personaggio dei racconti di guerra di Oesterheld, Ernie Pike. Un'altra chicca a prezzo ragionevole dell'editore emiliano.
Che piccolo gioiello inatteso, questo "Bobby Sombrero" di Giovanni Barbieri e Cristian Canfailla. Davvero fuori da tutti gli schemi dell'editoria a fumetti nostrana. Storia umoristica di fantascienza (o forse è più esatto dire fantascemenza), con due protagonisti a cui ci si affeziona subito: il cagnolone ottuso Bobby Sombrero, gran divoratore di Milkish e sempre pronto a gettarsi a cuor leggero nelle imprese più infelici, e il suo compagno Al Pelo, cagnolino dalle braccia meccaniche multifunzionali, testa pensante (e perciò perennemente preoccupato per non dire terrorizzato) del duo. La storia è incentrata sul rapimento di decine di principesse d'ogni razza e colore da inserire nell'harem del porco-piovra Ophulhu e procede frenetica, gag dopo gag e colpo di scena dopo colpo di scena, contrappuntata dall'intercalare del protagonista che dà il titolo all'episodio (traducibile in "San Fenicottero"). Bravo lo sceneggiatore, bravo il disegnatore (che, ahimè, pare essere piaciuto troppo ai dirigenti Panini che lo hanno subito dirottato su Topolino... e chissà quando potremo leggere un'altra avventura dei due canidi spaziali) e segnalazione anche per il colorista Alan D'Amico che aggiunge nitida allegria alle tavole di "Cinci" Canfailla. Bacchettate sulle mani, invece, alla casa editrice per la scelta dello stitico formato (qualche centimetro in più avrebbe permesso di godere maggiormente del rotondo, bel disegno e agevolato la lettura dei balloon) e per il viziaccio di non numerare le pagine.
Dalla costola di "#vengoanchio", serie creata da Francesco Matteuzzi e Luca Mazzocco per la pubblicazione online poi raccolta in già quattro volumi da Dada Editore, Luca Debus ha fatto nascere "Kindergarten", una strip umoristica slegata dalla serie principale che presenta le piccole avventure e disavventure infantili dei protagonisti di quella. L'autore ha un segno morbido e svelto, e un disegno gradevole che conferisce immediata simpatia ai piccoli interpreti, in questa raccolta di strisce inedite impegnati ad affrontare i problemi d'una vacanza al mare tra castelli di sabbia, affascinanti creature marine e balene spiaggiate. Lettura piacevole che strappa più d'un sorriso. Attendo la raccolta delle strisce che continuano ad apparire in rete... sempre che nel frattempo io riesca a ritagliare qualche spazio negli scaffali delle mie traboccanti librerie.
Per un amante della BéDé, e in particolar modo degli storici personaggi e autori Dupuis, le collane di Integrali pubblicate da diversi anni a questa parte sono uno scrigno del piacere.
Ho appena finito di leggere i primi quattro volumi dello "Spirou et Fantasio" di Franquin in lingua originale. Due, in realtà, li avevo già letti prima di iniziare questo post (e non a caso ho messo in apertura la copertina del secondo), e mi sono tenuto gli altri per chiudere in bellezza questa maratona di letture fumettistiche arretrate.
Partiamo dall'inizio: scoprire i primi vagiti professionali di un autore e seguire passo passo la sua evoluzione è sempre affascinante, specialmente per chi come me è autore a sua volta. E' anche consolante verificare che non sono stato l'unico a iniziare con disegni davvero inguardabili. Anche quelli di Franquin (per non dire di quelli di Hubinon, recentemente riproposti anche nella collana aviatoria de la Gazzetta dello Sport) erano davvero dilettanteschi. Vabbe', era l'immediato dopoguerra, e in tutta Europa non è che si vedessero tantissimi disegni del livello di quelli a cui ci avevano abituato strip e tavole domenicali statunitensi.
Dopo aver rilevato il personaggio titolare di testata da Jijé, Franquin matura anno dopo anno e all'inizio degli anni 50 la struttura del suo disegno (e delle sue storie, sempre più complesse e geniali, pur costruite comunque in divenire, senza un preciso soggetto dettagliato fin dall'inizio) è già tutta lì: caratterizzazione e movimento dei personaggi principali, di contorno e degli animali, cura di ambienti e mezzi meccanici (spesso inventati di sana pianta ma credibili come quelli presi dalla realtà), continui colpi di scena per tenere col fiato sospeso i giovani lettori da un numero all'altro della rivista. E, nel 1951, crea il Marsupilami. Da lì in poi è tutta strada in discesa. Non vedo l'ora di procurarmi gli altri quattro volumi che raccolgono tutta la sua successiva produzione e godermi un'altra abbuffata di vero, grande, esilarante, appassionante fumetto.
Per il momento, è tutto. Ho smaltito ogni arretrato. In realtà, mi restano da leggere alcuni albi bonelliani: "I bastardi di Pizzofalcone" animalizzati da
Falco,
Terracciano e
Fiengo (ho sfogliato le prime pagine, ma per il momento non riesce a convincermi ad affrontarlo) e "Attica" di
Giacomo Keison Bevilacqua (ho letto il primo, ma rimandato la lettura degli altri a quando avrò l'opera completa). Forse prima o poi aggiungerò anche la "recensione" di questi.