Di copertine di Fumo di China ne ho realizzate diverse. E ho fatto anche quella dell'unico numero dell'Annuario dell'Animazione. Sull'Annuario del Fumetto (testata che mi inventai di sana pianta quasi venti anni fa...) invece non avevo ancora "dato". L'ho fatto quest'anno. Il tema era decisamente stuzzicante: bonelliani contro bonellidi. E disegnare (a modo mio) alcuni dei principali personaggi della scuderia Bonelli e della agguerrita concorrenza è stato molto divertente. Per non affollare eccessivamente la copertina, la cui efficacia va quasi sempre di pari passo con la sintesi, ho deciso di riunire nelle due metà di una carta da gioco gli "assi" dei due schieramenti: i due personaggi campioni d'incasso del team di via Buonarroti, Tex e Dylan Dog, e la "quota rosa" Julia su un fronte, contro i due big di casa Star Comics e Eura/Aurea, Lazarus Ledd e John Doe, affiancati dall'outsider Desdy Metus meglio conosciuta come L'Insonne. A coadiuvarmi nella colorazione ho chiamato mio figlio Jacopo che sta cominciando a muovere i primi passi professionali in questo difficile ma appassionante settore. Io sono abbastanza soddisfatto del risultato. Per fortuna, visto che deve restare in edicola per tre mesi e un anno sulle librerie dei lettori in attesa di essere coperta dal numero dell'anno prossimo.
Non sono le prime copertine che realizzo nella mia carriera. Le prime, decisamente rozze (almeno dal punto di vista tecnico) furono forse quelle della serie di breve vita Pancozzi, di cui realizzavo anche i disegni interni e avevo disegnato la testata. Poi credo di non averne fatte altre fino a quella del secondo numero di Fox Trot!, seguita da quella dell'albetto a striscia di Marshal Mickey nel quale, dumasianamente, mi divertivo a "rileggere" il Capitan Miki del trio esseGesse vent'anni dopo. Poi, a parte quelle su FdC già citate e una per il Fumetto dell'Anafi, ci sono state quelle di Shanna Shokk per la Star Comics, quelle di Dark per la Granata Press e di tutti gli albi realizzati per le mie Edizioni Foxtrot (Dante, Omero, Superstrunz, Agenzia Scacciamostri, Turma...). Per finire, quelle dei volumi pubblicati da Cartoon Club, partendo dal solito Dante, proseguendo con i volumi delle altre parodie e degli albi a striscia di ZigZagor e Giubba Rozza e terminando (per adesso) con la raccolta di graphic tales "Leggi-le-Facce". Tre o quattro le ho realizzate anche per il Giornalino della S. Paolo Periodici (o per inserti dello stesso) relativamente ai miei personaggi umoristici (Omero, gli Hominidi, Capitan G...). Come si vede non un numero sterminato, ma quanto è bastato per divertirmi a sperimentare questo particolare tipo di illustrazione nei formati più disparati.
martedì 13 marzo 2012
sabato 10 marzo 2012
La scomparsa del Grande Sognatore
Non amando le celebrazioni in genere, vorrei ricordare Jean Giraud/Moebius "come da vivo" ripubblicando i testi che, a lui e alla sua opera, ho dedicato su Fumo di China: un articolo apparso su FdC n.171 e la recensione di un suo volume.
MOEBIUS TRENT'ANNI DOPO
Storie a forma di moscone che picchia nel vetro della finestra
La pubblicazione del volume "Arzach" nella collana I Maestri del Fumetto della Mondadori, in teoria non vendibile separatamente da Panorama o da Il Sole 24 Ore, ma in realtà acquistabile in tutta tranquillità anche da solo (ahi, serva Italia, d’ipocrisia ostello!), offre l’occasione di rileggere il percorso artistico di Jean Giraud, in arte (anche) Moebius, con gli occhiali della distanza e dunque di valutarlo più obiettivamente, storicizzandolo con maggior cognizione di causa.
Chi c’era, non può non ricordare l’eccitazione scatenata nella seconda metà degli anni Settanta tra i lettori e gli autori di fumetti dalle opere “rivoluzionarie” di questo autore francese che teorizzava la
realizzazione di storie “a forma d’elefante, di campo di grano o di fiammella di cerino”, e da quelle
dei suoi compagni d’avventura della rivista Metal Hurlant. In realtà, vista oggi, l’operazione compiuta da Giraud nelle vesti del suo “doppio” artistico Moebius appare solo il tentativo frustrato e frustrante di un autore che “sentiva” i limiti delle (bellissime) storie di genere che realizzava su testi di Jean Charlier per la rivista Pilote, e “annusava” che il fumetto poteva essere altro, aspirare a un valore artistico più alto o comunque diverso. L’autore di Blueberry era però solo un disegnatore. Bravo, bravissimo, forse eccelso. Ma solo un disegnatore. E questo gli ha impedito di vedere la strada che portava a quell’altro fumetto da lui solo “indovinato” oltre la parete dei suoi limiti.
La strada la vedeva invece, e con grande chiarezza, un altro autore nato di là dall’Oceano ventun anni prima del collega europeo, William Erwin Eisner. Di Eisner ho già parlato sulle pagine di Fumo di China ricordando come, costretto a lavorare dentro la gabbia di un ridicolo personaggio in maschera, avesse cercato divertimento e soddisfazione autoriale nello sperimentare ogni genere di tecnica narrativa e grafica, esplorando il pur vasto spazio del fumetto tradizionale fin nei più riposti recessi, impadronendosi così di tutti i suoi segreti. Finché, considerando concluso quel tipo di ricerca, sparisce dalla scena fumettistica, per tornarci solo nel 1978 con la raccolta di racconti a fumetti "Contratto con Dio e altre storie".
Il lavoro di Moebius che più pienamente rappresenta il risultato della sua fuorviata ricerca è di due anni prima. Rodato il suo pseudonimo con qualche storiella minore uscita negli anni Sessanta su Hara-Kiri, Charlie e L’Echo des Savanes e all’inizio dei Settanta sulla stessa Pilote, che ospitava il suo Blueberry, Giraud lo consolida nel ’75 nei brevi racconti di "Harzack-Harzac-Arzach- Harzak-Arzak-Harzakc-Arrzak" dove, a cominciare come si vede dalla fluttuante grafia del nome del protagonista, manca qualsiasi consistenza che non sia quella di un disegno che esplode liberandosi dai tradizionali limiti delle anguste vignette della bédé convenzionale come nei colori, facendosi spesso pura illustrazione. Narrativamente, si va dal niente al lazzo minimale. La teoria che sottiene al nuovo percorso artistico dell’autore è chiara: per suscitare emozioni il fumetto non ha bisogno di storia. Ed è freudianamente rivelatrice della natura psicologica della ricerca: l’uccisione del padre-sceneggiatore per poter amare liberamente la madre-grafica. Figlio del ’68, sognatore di improbabili rivoluzioni che cambino la natura stessa delle cose, Moebius/Hide si dimostra incapace di concepire un altro fumetto, o meglio un fumetto altro, in cui testo e disegno vadano avanti insieme crescendo/cambiando contemporaneamente per ascendere a un più elevato valore narrativo. Limitato dalla sua natura mentale prettamente “disegnativa”, l’autore si applica dunque l’anno successivo alla sua opera più ambiziosa, "Il garage ermetico di Jerry Cornelius", dove affastella in totale libertà situazioni incongruenti e una pletora di personaggi uno meno giustificato dell’altro, anche se sul finale, quasi presentendo la propria inevitabile resa, sembra voler cercare una “quadra” del caos fin lì lasciato libero di fluire disorganicamente. La ricerca, per il suo stesso limite teorico, non riesce ad andare più in là di un accumulo di sterili e spesso stilisticamente incoerenti, anche se talvolta bellissimi (ma a volte invece grezzi nel tratto e grossolani nel risultato) grafismi fini a
se stessi, che non vanno più in là di quelli che trent’anni prima Eisner aveva già sperimentato
allegramente sul suo The Spirit.
Non so se Giraud, all’epoca, conoscesse il lavoro del collega newyorchese, ma l’inizio di uno degli episodi (pag. 67 del volume mondadoriano), citazione o idemsentire che sia, sembra preso di peso da un episodio del giustiziere eisneriano. Come un moscone che intravede la libertà oltre la finestra e continua a sbattere contro il vetro che non vede, per pagine e pagine, episodio dopo episodio, Moebius destruttura la narrazione della sua opera, la sbeffeggia, la stravolge cercando di riunire, come nel nastro da cui l’autore prende il nome, in un unico percorso le due facce del fumetto, ma riuscendo in realtà soltanto a eliminarne una. La finestra rimane di conseguenza chiusa e, abbandonate le velleità rivoluzionarie, ben presto l’autore rientrerà con entrambe le sue personalità artistiche nei percorsi tradizionali, arrivando da un lato a ereditare da Jean-Michel Charlier, prematuramente scomparso nel 1989, anche i testi del suo Blueberry, e affidandosi dall’altro alle sceneggiature del visionario ma tecnicamente tradizionalissimo Alejandro Jodorowsky.
La nuova strada riesce invece a trovarla Eisner. Da sempre narratore completo, nella gabbia di Spirit ha compiuto, come abbiamo visto, i suoi esperimenti sia sul fronte grafico che su quello della sceneggiatura. E quando sente il bisogno di portare il fumetto da un’altra parte non si getta contro il vetro della finestra, ma esce semplicemente da uno spiraglio della porta. Lo ha aiutato, certo, la sua storia personale di ebreo figlio d’immigrati, di persona vissuta durante gli anni della Grande Depressione americana e poi a cavallo della devastante Seconda Guerra Mondiale. L’urgenza di testimoniare la sua realtà e la sua storia, senz’altro più ricca e profonda di quella del più giovane e aproblematico collega europeo, lo ha sostenuto, sospinto e motivato nella ricerca del metodo e della misura del nuovo fumetto che andava cercando, ma che non avrebbe mai trovato senza mantenerne l’unione di testo e disegno.
Alla verifica del tempo i percorsi artistici dei due grandi autori hanno dunque avuto esiti diametralmente opposti: fallimento totale per il “disegnatore” Giraud, la cui rivoluzione non ha avuto alcun seguito, giacché anche gli autori comunemente indicati come “segnati” dalle sue opere (Andrea Pazienza, Frank Miller e Katsuhiro Otomo) hanno percorso strade narrativamente tradizionali; pieno successo invece per Eisner nella indicazione (se non “creazione”) di un nuovo modo di fare fumetto che, al di là delle più o meno sterili polemiche sul graphic novel da me stesso sollevate in altre sedi, ha saputo mostrare il cammino a un numero sempre crescente di autori (Art Spiegelman, David B., Marjane Satrapi e Gipi per non citare che i più noti), aprendo nuove frontiere narrative ed editoriali al medium.
(rubrica “Sfogliatine”, FdC n. 186)
Arzak
di Moebius
Vol. 1: L’arpenteur (Moebius Productions-Glénat)
Trentatré anni dopo la prima apparizione in volume di Arzak, il “rivoluzionario” Moebius rinuncia a ogni sua velleità, fa la pace con l’alter ego Jean Giraud e fa confluire le proprie due anime in questa westernizzazione della sua creatura fantascientifica, restituendole quella parola senza la quale l’aveva provocatoriamente fatta nascere.
Il risultato è quest’avventura in tre volumi coprodotta dalle case editrici Moebius Productions e Glénat. Il primo tomo, fresco di stampa, apre su due scenari apparentemente slegati: lo spazio profondo, dove un vascello della Confederazione Dessmez è attaccato dal terribile pirata Kimorg Barbax, e Tassili, il pianeta d’origine dei Werg colonizzato dalla Confederazione, dove l’agrimensore (!) Arzak svolge il suo compito censendo senza fine quel territorio caotico e cercando al contempo di scovarne le anomalie per stabilirvi l’ordine umano. Ideologicamente, una restaurazione in piena regola.
Una sfogliatina al volume invita comunque all’acquisto. Con scenari, personaggi e situazioni che fondono piacevolmente i mondi e gli stilemi di Blueberry e John Difool, oltre a quelli di Arzak, l’ultima opera dell’autore francese finalmente riconciliato col suo doppio promette grande avventura e splendide tavole tutte da gustare.
(Le immagini sono © degli eredi Giraud e qui usate solo a scopo di documentazione. La foto di Jean Giraud è tratta dal sito di Le Monde/AFP Franck Fife)
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