venerdì 15 agosto 2025

Per chiudere la Storia


Qualche settimana fa ho comprato il primo numero della ristampa di Bella & Bronco, l'ultimo tentativo di serie western uscito dalla macchina da scrivere e dalla matita di Gino D'Antonio. Ho già tutta la serie originale in bianco e nero, e non m'interessava rileggermela in versione colorata.



Il motivo dell'acquisto era il racconto, sempre dell'autore meneghino, "L'intervista" apparso nel 1983 sulla rivista Orient Express. L'avevo letto a suo tempo, ma quando da Milano sono tornato in Toscana, avevo venduto tutte le riviste e un sacco di altri fumetti per i quali non avrei avuto posto nella nuova abitazione, così non avevo più quell'ultimo capitolo "extra" della Storia del West che per il resto conservo ancora gelosamente, completa. Era dunque l'occasione per chiudere come si deve l'opera magna di D'Antonio. E ho riletto con piacere questo fulminante racconto in cui l'autore riporta in scena il suo MacDonald inventandosi una "dannazione" magica per George Armstrong Custer.


Già che c'ero mi sono riletto anche l'episodio dei titolari di testata, e ho fatto tra me e me qualche considerazione che qui condivido.

Capita a più d'un disegnatore, con l'età, di perdere un po' il senso delle proporzioni, spesso aumentando la grandezza delle teste. Lo si è visto negli ultimi lavori di Galleppini, e anche in Bella & Bronco se ne intravedono le prime tracce. Al netto di questo, il lavoro di D'Antonio resta splendido come sempre: personaggi ben caratterizzati, scene di movimento plastiche e ben costruite, gusto dell'inquadratura senza sbavature e montaggio della tavola di grande sapienza.
Sul fronte del testo, dopo anni di West romanzato sulla base degli avvenimenti storici, l'autore opta per un tono più da commedia, sia pure d'azione. I battibecchi tra i due protagonisti, i siparietti tra i delinquenti di secondo piano e l'intero impianto della vicenda, basata su una caccia al tesoro che ricorda per molti versi il film "Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo", sono giocati sul filo dell'ironia che sdrammatizza cannonate, sparatorie e morti brutalmente ammazzati che pure abbondano.



La serie non ebbe un grande successo, durando solo 16 numeri. Forse la voglia di leggerezza (non dissimile da quella delle storie della giovanissima Susanna che D'Antonio realizzava per il Giornalino) aveva tradito l'autore facendogli prendere una strada totalmente divergente da quella della maggioranza dei lettori che stava evolvendo e sarebbe sfociata nello splatter di Dylan Dog e poi, col nuovo secolo, in una decisa virata verso serie televisive e film western crudi, polverosi, sanguinari, intrisi di sesso e in qualche modo "malati".

C'è ancora D'Antonio ai testi della parte iniziale di "Bandidos!", volume autoconclusivo affidato al tratto di uno stanco Renzo Calegari che, a differenza degli artisti su citati, nella deformazione del disegno sopravvenuta con l'età, anziché ingrandirle le teste le rimpicciolisce al punto che in alcune vignette sembrano delle tsantsa. Anche questa storia, che apparirà in appendice a tutti i numeri della collana, l'avevo già letta nel 2007 quando uscì, postuma per lo sceneggiatore. Confesso che mi aveva deluso sia dal punto di vista dei testi che delle immagini, e quando avevo svuotato una parte delle mie librerie ci avevo rinunciato senza problemi.



E' stato comunque un piacere ritrovare il bel disegno e l'intelligenza di Gino D'Antonio che, anche se nella sua vita professionale si è tolto tutte le soddisfazioni possibili, non è forse stato utilizzato come avrebbe meritato. Se Sergio Bonelli fosse stato solo un editore e non anche uno sceneggiatore che, era inevitabile, ha riempito la propria redazione di suoi simili, D'Antonio sarebbe stato il perfetto direttore editoriale. Abile con le parole come col pennino, avrebbe potuto dare alla casa editrice un maggiore equilibrio mediando tra le necessità degli autori dei testi e di quelli dei disegni e favorendo il massimo sviluppo delle abilità degli uni e degli altri, come anche evitare la stesura di un contratto pesantemente sbilanciato a favore degli sceneggiatori come quello partorito da Bonelli e Castelli (ne ho parlato ampiamente nel mio saggio di cui vedete qui sotto la copertina).






venerdì 8 agosto 2025

Donne e pirateria


Che gran bel libro! Un vero romanzo a fumetti, se ce n'è uno.
La protagonista, una tra le più famose donne pirata, sembra godere di grande attenzione, nel mondo del fumetto sulle due sponde dell'Oceano Atlantico come potete vedere dalle numerose pubblicazioni che ho pescato random in rete.














La giornalista e traduttrice Claire Richard trova un originale spunto, per raccontarci la vita di Anne Bonny: mentre la donna, divenuta l'anziana tenutaria di un bordello, cammina nel quartiere francese di New Orleans incontra la Morte che la informa che passerà a prenderla all'alba del giorno successivo.



Decisa a rettificare le imprecisioni nella sua biografia scritta, insieme a quella della sua compagna di scorrerie Mary Read, dal capitano Johnson racconta la sua verità ad Apolline, sua collaboratrice alla quale intende lasciare la proprietà della casa di tolleranza. Trascorre così la sua ultima notte di vita. Mentre la giovane scrive sotto dettatura, Anne ripercorre tutte le tappe della sua vita: figlia illegittima nata da un'avventura del padre con una servetta, costretta a fingersi maschio prima per poter vivere sotto il tetto del genitore all'insaputa della consorte e poi, quando la donna scopre lo stratagemma e butta entrambi fuori casa, per evitare le attenzioni dei marinai durante il viaggio verso il Nuovo Continente.





Attratta fin da piccola dalle gesta dei pirati, la ragazzina cresce nella piantagione messa su dal padre fino all'incontro con il primo marito, John Bonny, che si spaccia per esperto marinaio intenzionato a darsi alla pirateria mentre è solo interessato a prendersi l'attività del suocero. La svolta nella vita di Anne arriva quando trova sulla sua strada Jack Rackam, suo primo vero amore e reale pirata...
L'autrice racconta tutto, fino all'inatteso colpo di scena finale, con grande sapienza tratteggiando un personaggio quanto mai vivo e credibile. L'aiutano in questo le bellissime tavole di Alvi Ramirez, uno di quei fortunati disegnatori capaci di rappresentare persone e ambienti con pochi, felicissimi tratti che rendono la vicenda più vera del vero.
Insomma, una lettura gustosissima. Il fumetto ai suoi massimi livelli, per il mio gusto.



Un Giardino d'altri tempi


Il sentimento più forte che mi ha suscitato la lettura di questo nuovo episodio delle avventure di Max Fridman è la malinconia.
Credo che Vittorio Giardino sia forse, tra quelli d'una certa fama, l'unico autore rimasto totalmente analogico. Disegna su carta, ripassa a china, fumetta a mano e colora direttamente sulle tavole o su appositi stamponi, esattamente come si faceva quarant'anni fa. Milo Manara, per dire, che pure sicuramente disegna su carta e pittura personalmente le sue tavole, per il lettering si è adattato ai font digitali.



Quando, nell'ormai lontano 1992, lo intervistai per Fumo di China (sul n. 15 da edicola, che festeggiava il 50esimo dalla nascita; chi ce l'ha se lo vada a rileggere, chi non ce l'ha potrà godersi l'intera intervista in una rivista-libro che ho in progetto per la fine dell'anno, naturalmente per i tipi delle Edizioni Foxtrot) Giardino stava lavorando a un fumetto su Piero della Francesca.


Studiandone le tecniche di lavoro abituali per tutti i pittori dell'epoca, si era reso conto di come un fumettista come lui utilizzasse modalità tecniche in fondo molto simili a quelle in uso nel Rinascimento per gli affreschi: "È impressionante, vedendo da vicino l'opera e studiandola anche un po' nelle sue modalità di esecuzione, rilevare la quantità di analogie che ci sono fra il mestiere del pittore in quei tempi e il mestiere dell'autore di fumetti oggi. Personalmente, la sparo grossa, trovo che ce ne siano molte di più che non fra il pittore di allora e il pittore di oggi. (...) Anche nella fase di realizzazione, il modo in cui lavorava direi che è molto più simile al nostro piuttosto che a quello di un pittore di oggi. Intanto, prima cosa ovvia, il tempo di esecuzione. Oggi credo che normalmente i pittori finiscano le loro opere in tempi relativamente ristretti, forse anche per le dimensioni più piccole. Piero sapeva benissimo in partenza che si trattava di un lavoro che sarebbe andato avanti come minimo qualche anno. E le modalità di esecuzione erano estremamente pensate, ragionate... voglio dire, certamente ha avuto un'ispirazione (sto usando termini un po' impropri) di tipo irrazionale nell'immaginare la sua composizione, però poi prima di passare alla realizzazione tutto è stato passato al vaglio di una razionalità non solo esecutiva, ma anche simbolica e ideologica. Veramente lontanissimo dall'idea dell'artista che in preda alla foga creativa, prende pennelli e colori e, zac-zac, senza quasi nemmeno rendersene conto realizza il quadro, capolavoro o schifezza che sia. Piero no: prepara tutti i cartoni in grandezza naturale (...) e fa, o fa eseguire dai suoi aiutanti - perché era un lavoro gigantesco e aiuti ne doveva avere - lo spolvero (procedimento che consiste nel riportare sull'intonaco il layout del disegno da eseguire, NdR). Dunque lo spolvero dei cartoni sul muro, quindi la traccia, poi l'affresco. Chiaramente lo dice il termine, era una pittura sull'intonaco fresco, che deve essere completata in otto-dieci ore, non di più perché poi l'intonaco secca e il colore non prende. Di conseguenza il muratore stendeva una superficie liscia d'intonaco, corrispondente a una giornata di lavoro del pittore. Il muratore non poteva stendere l'intonaco su tutto il muro, perché sarebbe seccato. Sul cartone – prassi normale, ma forse non tutti lo sanno – Piero identificava le zone corrispondenti alle giornate di lavoro in superfici più o meno ampie a seconda delle difficoltà. Quando c'era un volto, un ritratto, la superficie era piccola. Se doveva fare un cielo è chiaro che poteva finire anche due metri quadri in un giorno. Il muratore però nel riprendere l'intonaco lo faceva sì liscio, ma non perfettamente in piano con l'intonaco del giorno predente. Quindi nella giunzione fra gli intonaci di giorni successivi si sarebbe comunque vista una linea in rilievo, ed era importante di conseguenza che una giornata di lavoro corrispondesse al contorno di una figura in modo da mascherare il rilievo. Perciò le giornate di lavoro erano pianificate esattamente. Questo genere di tecnica è molto simile al lavoro dell'autore di fumetti."
Come si vede, una modalità non difforme da quella di chi colora una tavola a fumetti con gli acquarelli: non stende l'acqua su cui poi agirà il colore su tutta la vignetta, ma solo sulla parte/sulle parti a cui lavora di volta in volta... i visi, il cielo, un vestito, un oggetto... e solo quando il colore steso in quella fase è asciutto passa a bagnare altre parti su cui stendere differenti colori.





L'approccio di pieno controllo sul proprio lavoro, riportato all'attività del singolo autore di fumetti che non si fa aiutare da una "bottega" di assistenti, è quello scelto fin dall'inizio della carriera da Vittorio Giardino che crea nell'intimità dello studio, in solitudine, le sue opere fase dopo fase. Visto il grande successo delle sue opere, non ha mai sentito il bisogno di cambiare, di sperimentare diverse tecniche e tantomeno tecnologie. L'interesse - e lo scopo - dell'autore bolognese è uno solo: raccontare, col linguaggio del fumetto, le storie che gli premono dentro. E come non ha mai rinunciato ad arricchire le sue vignette di tutti i particolari che "sentiva" necessari anche quando per il lettore potevano risultare inutili ("Spesso mi hanno criticato, e a ragione, perché le mie tavole avevano troppa roba dentro. Il che, se anche non disturba, comunque è inutile perché poi tanto nessuno li vede tutti questi oggettini sui tavolini, con il bicchiere, la bottiglia... e si legge anche il nome sull'etichetta! Assolutamente assurdo, è vero. Sono però stato confortato e gratificato nel vedere che quello che ritengo uno dei più grandi artisti del Rinascimento italiano faceva qualcosa di simile. Anche lui realizzava dei dettagli che da mezzo metro, dalle impalcature, tu vedi ma normalmente, coi piedi sul pavimento dell'abside ti sfuggono. Perché diavolo ce li metteva, se nessuno li avrebbe visti? Io credo che ce li abbia messi perché doveva metterceli, per sé stesso"), nello stesso modo non ha mai sentito il bisogno di utilizzare le possibili scorciatoie offerte dalle sopravvenute nuove tecnologie per velocizzare un lavoro la cui inevitabile lentezza, date le modalità, pure lo ha sempre crucciato (ancora dall'intervista: "Essendo molto lento dovrei cercare di non insistere più di tanto su un particolare disegno. Invece poi, pur essendo spesso in ritardo, il tempo me lo prendo lo stesso. Per cui insisto su quel che faccio fino ad arrivare al massimo di cui sono capace").



Anche questo nuovo lavoro è dunque Giardino al cento per cento, che è poi quello che vogliono i suoi lettori, me compreso. Questo non impedisce che davanti a quest'opera realizzata coerentemente "come lui sa ed è abituato a fare" si venga colti dalla sensazione che si tratti della testimonianza, tenace ma in qualche modo malinconica, di un modo di fare arte sequenziale e di un mondo destinati a sparire, di fatto già spariti. Non è l'ultimo soldato giapponese rimasto nella giungla convinto che la guerra continui ancora. Giardino è troppo intelligente per non vedere e sapere cosa sia successo all'editoria fumettistica negli ultimi trent'anni. La sua non è dunque la battaglia di un irriducibile, ma solo l'onestà di restare fedele a sé stesso, finché dura.
Ma veniamo al libro, diviso in due parti che avrebbero anche potuto vivere separatamente.
Nella prima l'autore costruisce una narrazione drammatica immergendoci nel crescendo di ghettizzazione e criminalizzazione della comunità ebraica nella Vienna del '38. Seguiamo le vicende della famiglia Meyer, sempre più messi alle strette e quando, troppo tardi, si decidono ad abbandonare il Paese, viene loro impedito di farlo. Per loro fortuna sono cugini dei Fridman, e la madre di Max (entriamo così nella seconda parte del volume, quella avventuroso-spionistica) chiede al figlio di trovare il modo di farli uscire dall'Austria nazistizzata. Inizia una lotta sotterranea tra le paranoie di un ufficiale dei servizi segreti locali e il protagonista che, conoscendo i suoi polli, non ha eccessive difficoltà a farsi gioco della macchina repressiva delle camicie brune. Il pathos non manca, la tensione e i colpi di scena neppure.





Nelle 164 tavole della storia, con gli abituali ritmi tra film e romanzo adeguati all'evolversi della vicenda, Giardino ci regala un'altra delle sue perle, pienamente godibile. La scrittura è precisa, il pennino sempre efficace e la colorazione non invadente.
Insomma, il libro merita l'acquisto e la lettura. Nonostante quel sentimento di malinconia che ci lascia dentro.


mercoledì 6 agosto 2025

Braccio di Bud


Dopo aver letto tutte le strisce del Popeye di Segar nella bella collana curata da Luca Boschi e Pier Luigi Gaspa per la Gazzetta dello Sport, recentemente ho preso i quattro numeri pubblicati dalla Cosmo del Braccio di Ferro scritto e disegnato da Bud Sagendorf.
Anche se era stato stretto collaboratore dell'Autore del personaggio, alla scomparsa del creatore strisce e tavole domenicali non vennero affidate a lui, ritenuto troppo giovane, ma a Doc Winner e Tom Sims. Il momento di Bud arrivò solo dieci anni più tardi, nel 1948, quando cominciò a lavorare alla produzione per i quotidiani dopo quella che già realizzava per i comic book.





In passato avevo letto alcune di quelle brevi storie su varie pubblicazioni (a memoria direi su Vitt e su il Giornalino) e non mi avevano mai entusiasmato. Il disegno di Sagendorf è pulito, professionale, piacevole. Ma, come sempre succede quando si viene incaricati di continuare il lavoro di un altro autore, scatta l'inevitabile ingessatura del personaggio che si è ereditato. E, anche quando da ragazzo sapevo poco o niente della storia editoriale di Braccio di Ferro, questo limite già lo "sentivo": in quelle storie il marinaio e i vari coprotagonisti erano poco più che macchiette congelate nei loro ruoli e disegnate un po' "a macchinetta".


Devo dire che la lettura della produzione per il syndicate mi ha un po' riconciliato con l'autore di Wenatchee. Avendo maggiore spazio per sviluppare trame più complesse, nelle strip Sagendorf dimostra di aver ben assimilato la lezione del maestro costruendo spesso storie surreali e scombinate che non fanno rimpiangere eccessivamente quelle di Segar anche se, certo, si naviga diverse spanne più in basso, triste destino della continuazione di personaggi seriali.




Sagendorf si prende anche delle libertà sulla continuity come quando racconta dell'amore nato tra il marinaio e Olivia quando erano compagni di scuola, mentre sappiamo bene che si sono incontrati solo in età adulta dopo che il fratello di lei aveva assunto Popeye per un'avventura in mare.


Nota di demerito per il traduttore/traduttrice che già dalla prima pagina si perde in un conteggio da prima elementare (forse la frase di Olivia in originale era "Se io ho due mele e tu ne hai il doppio..."?), e non migliora nei volumi successivi. Lavoro frettoloso perché pagato poco? Di questi tempi, niente di più probabile.