La
strage a Parigi nella redazione di Charlie
Hebdo
ha inevitabilmente sconvolto l'ambiente fumettistico. Alcune delle
persone uccise in modo così assurdo erano nostri colleghi, persone
che "conosciamo" anche se non le abbiamo mai incontrate.
Non
spenderò una sola parola sui motivi dell'assurda carneficina. Si è
trattato di un atto bestiale figlio di una delle tante pazzie che
guastano quotidianamente il nostro mondo, e troppo lungo e complicato (e sicuramente inutile in questa sede) sarebbe andarle ad analizzare.
La
strage e quello che ne è seguito a livello di dichiarazioni,
manifestazioni, vignette "di solidarietà" (stendiamo un
velo pietoso sull'affaire
Corriere
della Sera,
di cui tutti sapete o potete andare a leggere sulla mia e altre pagine Facebook), oltre ad agitarmi oltremodo mi hanno spinto a una serie di
riflessioni che sento il bisogno di condividere con chi mi legge
abitualmente su queste colonne.
Credo
sia necessario anzitutto chiarire di cosa stiamo parlando, perché
sia su quotidiani e tivù che in rete sono state scritte e dette
imprecisioni, quasi inevitabili quando si parla di editoria a fumetti
o satirica, generi poco frequentati dal giornalista "medio".
All'inizio
fu Hara-Kiri,
una rivista fondata nel 1960 da Georges Bernier, alias Professeur
Choron.
Sul
primo numero è riportata la scritta "Honni soit qui mal y
panse", che richiama il motto del britannico Ordine della
Giarrettiera ("Honi soit qui mal y pense": "Sia
vituperato chi ne pensa male"), conosciuto in Italia dai lettori
di fumetti neri che lo trovarono per un certo periodo sulle copertine
di Kriminal.
Nei numeri d'inizio 1961 il mensile prende il sottotitolo di "mensuel
satirique", e solo dal n. 7 dell'aprile di quello stesso anno
assume la dicitura "journal bête et méchant" (giornale
stupido e cattivo) che lo accompagnerà per il resto della sua lunga
vita editoriale. Dal n. 32 i disegni in copertina lasciano il posto
alla fotografia.
La
"cifra" del giornale era sostanzialmente quella di un
umorismo demenziale e irriverente; una vera e propria bomba gettata
nelle acque stagnanti di quel periodo di perbenismo imperante e
repressione sessuale (il '68 era ancora lungi da venire). Insieme a
Choron, che ne sarà la folle anima editoriale, lavorano a Hara-Kiri François
Cavanna
(autore della geniale battuta: "Beethoven era così sordo che
credette per tutta la vita di essere un grande pittore"), Fred,
Reiser,
Cabu,
Gébé,
Wolinsky,
Topor,
Willem
e molti altri. La rivista arriverà a vendere nel 1966 250.000 copie
che non evitano un sacco di problemi economici alla casa editrice,
visto che Choron paga esageratamente i collaboratori, spende tutto
quello che gli avanza per migliorare il giornale (carta, colore...) e
organizza costosi festini alcolici a ogni occasione. I problemi
cominciano ad arrivare quando madame de Gaulle in persona ne fa
vietare l'esposizione nei chioschi e la vendita ai minori; la polizia
infastidisce continuamente gli edicolanti (anche quando
l'interdizione viene tolta: nessuno si è preoccupato di informarli)
che finiscono spesso per nascondere Hara-Kiri;
le vendite crollano e, nel tentativo di ridare fiato economico alla
casa editrice (les Editions du Square), Delfeil
De Ton
propone di creare un mensile di fumetti a imitazione del Linus
italiano. Attingendo sempre ai nomi dei protagonisti dei Peanuts
di
Charles
Schulz,
viene così varato il mensile Charlie
(Brown).
Intanto
è arrivato il Sessantotto. Il successo del giornale "barricadero"
L'Enragé, legato all'attualità politica e alle proteste
studentesche, spinge la redazione a varare Hara-Kiri Hebdo
(in francese "hebdomadaire" significa "settimanale")
anche se in cassa non ci sono soldi. Il problema economico continua a
pesare: La rivista madre si è stabilizzata sulle 100.000 copie;
Charlie
ne vende appena 15.000 e Hara-Kiri Hebdo
viaggia sulle 30.000.
Si va avanti così finché, il 9 novembre del
1970, muore il generale Charles
de Gaulle.
Parodiando i titoli dei giornali che pochi giorni prima avevano
commentato un tragico incendio in un locale da ballo a St Laurent De
Pont che aveva fatto molte vittime, l'Hebdo
titola sarcasticamente: "Ballo tragico a Colombey (residenza di
De Gaulle): 1 morto!"
Marcellin,
ministro dell'Interno, vieta la vendita del settimanale satirico
accusandolo di pornografia. La stampa "seria" si accorge
così dell'esistenza di Hara
Kiri Hebdo:
quotidiani, radio e televisione insorgono contro la censura! Se
nessun giornalista avrebbe speso una parola per difendere Hara-Kiri mensile,
giornalaccio pornografico e scatologico, il settimanale era invece
considerato "giornale d'opinione", e dunque la levata di
scudi in difesa della libertà di stampa è generale.
Pubblicitariamente è un colpo fenomenale, per i ragazzacci delle
Editions du Square: le vendite di Hara-Kiri Hebdo (trasformato
istantaneamente in Charlie
Hebdo
per aggirare il divieto) raggiungono di colpo le 100.000 copie e
salgono rapidamente fino a 180.000 trascinando le riviste "sorelle":
Charlie mensile
si posiziona sulle 100.000 copie e Hara-Kiri
a 120.000.
Choron
può finalmente pagare tutti i suoi creditori, triplicare i compensi
ai collaboratori, reinvestire sui giornali... e continuare le sue
famose feste, nel corso delle quali verrà assegnato anche il "Prix
Bête et Méchant".
Nel
1974 sale però al potere Giscard
d'Estaing.
Le sue politiche "di sinistra" e ecologiste cominciano a
erodere la base "protestataria" dei lettori di Charlie
Hebdo,
e se la rivista "stupida e cattiva" conserva il suo motivo
di esistere e i suoi lettori, anche Charlie
mensile inizia ad avere problemi con l'arrivo della "concorrenza"
de L'Echo
des Savanes,
di Métal
Hurlant
e di Circus.
Calo
delle vendite e un continuo fioccare di processi (non solo da parte
delle istituzioni, ma anche intentati da personaggi dello spettacolo
come il mimo Marcel
Marceau
e Brigitte
Bardot)
mettono a dura prova le finanze della casa editrice e spingono Choron
nel 1981 a mettere fine alla vita di Charlie
Hebdo,
a vendere Charlie
mensile alla Dargaud e ad affidare la raccolta in volume dei suoi
materiali ad Albin Michel; nel 1982 sarà costretto a licenziare 23
persone e infine, nel 1989, a chiudere anche Hara-Kiri.
Per inciso, passato a Dargaud, Charlie mensuel si fonderà con l'altra rivista dell'editore, la storica Pilote, dando vita dal primo marzo del 1986 a Pilote et Charlie che ricomincia da 1 la numerazione. La "strana coppia" durerà solo 27 numeri. Dal n. 28 "Charlie" scompare dalla testata, che torna a essere semplicemente Pilote fino al n. 41, quando cessa le pubblicazioni.
Per inciso, passato a Dargaud, Charlie mensuel si fonderà con l'altra rivista dell'editore, la storica Pilote, dando vita dal primo marzo del 1986 a Pilote et Charlie che ricomincia da 1 la numerazione. La "strana coppia" durerà solo 27 numeri. Dal n. 28 "Charlie" scompare dalla testata, che torna a essere semplicemente Pilote fino al n. 41, quando cessa le pubblicazioni.
Philippe
Val, Gébé e Cabu procurarono il capitale per finanziare il primo
numero. Fu creata una società per azioni. Detenendone l'80%, i tre
si resero praticamente i proprietari del giornale e ne assicurarono
l'indipendenza politica.
È
così che Charlie
Hebdo nacque
nella sua nuova versione nel luglio 1992. Per il suo lancio beneficiò della prestigiosa notorietà del Charlie
Hebdo storico,
tanto più che vi si ritrovarono le firme d'avanguardia degli anni 70: Cavanna, Delfeil de Ton, Gébé, Wolinski, Cabu e un formato
identico. Fu presentato e accolto non come un nuovo settimanale, ma
come il seguito, la ricomparsa del predecessore. Del primo numero
sarebbero state vendute 100.000 copie: un grande successo.
Il
Professor Choron, al quale non era stato proposto un posto che
ritenesse accettabile, tentò da parte sua il rilancio simultaneo di
un Hara-Kiri settimanale,
ma la sua avventura fu breve."
Nonostante una fiammata di vendite al momento della pubblicazione nel 2006 delle famose "vignette di Maometto" che fecero salire la tiratura a 400.000 copie, negli ultimi tempi il giornale non doveva cavarsela benissimo, se sul proprio sito invita tuttora a "sostenerlo, abbonandosi o facendo un dono (con assegno o carta di credito)". Certo, adesso i milioni di copie venduti in tutta Europa (in Italia lo ha distribuito il Fatto Quotidiano) del numero uscito dopo la strage dovrebbero garantire un bel po' di ossigeno alle casse del settimanale... ma a quale prezzo!
Ed eccoci dunque alle considerazioni. Sulla satira, il diritto di stampa e di espressione, e la libertà o meno di "offendere" la sensibilità di questo o quel gruppo sociale, etnico, religioso o anche di singole persone.
Chiarisco subito che secondo me la libertà di espressione non può che essere assoluta, o non è tale. Chiunque deve poter esprimere il proprio pensiero senza limitazioni. Per le offese personali e le calunnie ci sono appositi articoli di legge ai quali appellarsi, ma ritengo che la "sensibilità", specialmente in relazione a religioni, credenze, costumi e abitudini sociali non debba essere protetta.
Penso però che, oltre a quelli di legge (correggibili anch'essi: credo per esempio che in Italia esista ancora il reato di "offesa a Capo di Stato"; se è così, per me andrebbe abolito), possano presentarsi dei "limiti" di buon senso di cui tenere conto. Faccio un esempio personale: quando Don Tommaso Mastrandrea, direttore de il Giornalino, mi propose di pubblicare sul suo settimanale il mio "Dante, la Divina Commedia a fumetti", non ebbi nessun problema ad accettare i "limiti" che mi poneva per poter concretizzare l'operazione: eliminazione degli "attributi sessuali" e delle strisce che toccavano argomenti (prostituzione, omosessualità ecc.) poco adatti al target del giornale, fatto di ragazzini e ragazzine dai 7 ai 12 anni. Non avrei invece accettato nessuna limitazione se le strisce fossero state pubblicate su un giornale rivolto a un pubblico adulto.
E giacché abbiamo toccato l'argomento "sesso", facciamo ancora qualche esempio. Il mio primo lavoro professionale continuativo fu il mensile Le Sexy Operette. Se all'inizio la pubblicazione mostrava dei nudi e degli amplessi solo "suggeriti", dopo che Magnus sul suo lo Sconosciuto "sdoganò" - come scelta di realismo, da quel grande artista che era, e non certo per calcolo di pornografo - la rappresentazione del membro maschile sui fumetti per adulti, anche il mio editore si sentì autorizzato a far realizzare situazioni e disegni senza più alcun velo. Personalmente non avevo nessun problema a farlo, e indipendentemente dalla qualità artistica del lavoro, la ritengo una conquista di libertà. Ma se trovo sacrosanto raccontare e disegnare qualsiasi tipo di amplesso all'interno della pubblicazione, nel momento in cui quel volumetto viene esposto liberamente in edicola, FIN DOVE può spingersi invece chi realizza le copertine che possono finire sotto gli occhi di un ragazzino recatosi magari in edicola per comprare Topolino? Lo stesso vale per i film porno, o "a luci rosse" come vennero battezzati qualche decennio fa: se è legittimo pretendere assoluta libertà narrativa e d'immagine anche per il film più biecamente pornografico, QUANTO si può mostrare sui cartelloni esposti sulla pubblica via, alla vista di chiunque ci passi davanti? Questo vale per le immagini come per le parole. A Livorno viene pubblicato il Vernacoliere, un mensile di satira politica e costume che infarcisce i suoi titoli di termini di natura sessuale, e si presenta al pubblico con l'ausilio di una classica "civetta" come un normale quotidiano. Se sono pronto a difendere l'uso di qualsiasi parola e immagine sulla rivista, confesso di essermi trovato a volte a disagio passando davanti a un'edicola in compagnia di mia figlia di sei o sette anni e vedere liberamente esposte frasi del tipo "Berlusconi voleva tromba' anche Rosibindi", "In calo anche le seghe" o "Chiusa la potta di Ruby".
E qui si innesta un'altra riflessione, sul "valore" dei giornali satirici e sulla tenuta nel tempo di certi moduli comunicativi.
Dopo aver disegnato per quattro anni e anche scritto per un paio Le Sexy Operette, dove si cercava di accompagnare con ironia (inevitabilmente piuttosto triviale) una sequela di copule (mediamente una decina a numero, per "contratto") legate fra loro da un'esile storiella, non ho quasi mai più avuto voglia di fare battute a contenuto sessuale né su giornali né nella vita quotidiana. Non perché mi fossi improvvisamente trasformato in un benpensante, ma perché l'argomento è tutto sommato abbastanza limitato e i giochi di parole che ci si possono fare sopra, alla fine, sono sempre i soliti e quando li hai fatti (o sentiti) una volta non sono più divertenti. Il limite di tutto quello che attiene all'umorismo è purtroppo questo: dopo un po' non fa più ridere. Persino il meccanismo del tormentone, che rafforza la battuta con la ripetizione, funziona solo fino a un certo punto, poi stufa e annoia.
Questo cosa comporta? Che chi fa umorismo, anche in forma di satira, è costretto a cercare sempre nuovi "agganci" e formule inedite per continuare a far ridere. Non è un caso che autori come Bonvi, o Quino, o Watterson abbiano a un certo punto sentito il bisogno di fermarsi perché ormai avevano già "tirato fuori" tutto il possibile succo umoristico dalle loro creature cartacee. Andare ancora avanti (solo Bonvi ci ripensò, probabilmente "per necessità", realizzando strisce delle Sturmtruppen sempre più stanche e ripetitive) avrebbe significato fare vignette noiose per loro e per chi le avrebbe lette.
Avendo scelto, per indole, di fare strisce umoristiche di taglio "narrativo", basate su opere letterarie e cinematografiche o biografie, io sono riuscito fino ad oggi a sfuggire a questa implacabile legge, visto che trovo nelle vicende dei romanzi e dei poemi che scelgo di parodiare le situazioni sempre diverse che mi consentono di continuare a divertirmi (e, spero, a divertire i lettori).
Chi fa satira può trovare nel ricambio del personale politico le "novità" per andare avanti, anche se, al di là del mutare delle persone, non è che nel tempo governi ed elezioni consentano "narrazioni" particolarmente inedite. Ma se si ha una pubblicazione da vendere, specialmente se settimanale, i contenuti che consentano di non annoiare i lettori si possono trovare solo in due modi: cercando sempre nuovi argomenti, o "alzando il tiro" continuamente quanto a linguaggio e tematiche. Così, dopo aver scritto in copertina o sulla locandina pubblicitaria "Berlusconi fa cacare", tocca passare a "Berlusconi ci fa una sega", a "Berlusconi l'ha preso nel culo"... e poi, inevitabilmente, ci si ripete o ci si arena. Ancora meno efficace passare dall'ironizzare sulle persone (o gli avvenimenti) al tentativo di sputtanamento di credi e ideologie, perché lì si arriva subito alla fine della strada: quando, come in una copertina di Charlie Hebdo, hai disegnato lo Spirito Santo che si inchiappetta il Figlio che si inchiappetta il Padre, il gioco è già finito. Se vuoi rilanciare (e per vendere sei costretto a farlo) ci puoi aggiungere la Madonna, San Pietro e tutti i santi... ma il divertimento è già morto al terzo tentativo di rilancio. Così addio vendite, come è successo puntualmente a Cuore, a il Male e sta succedendo (per la seconda volta) allo stesso Charlie Hebdo.
Con la diffusione mondiale di internet, fra blog, siti e social network, il problema diventa ancora più delicato, perché anche quello che è magari nato per una fruizione correttamente privata, può facilmente venire veicolato in rete, moltiplicato all'infinito e finire sotto gli occhi di persone che alla pubblicazione originale non si sarebbero mai avvicinati.
All'inevitabile "che fare?" di leniniana memoria, posso rispondere solo con l'invito al buon senso. E all'approfondimento ulteriore di queste riflessioni.
Per maggiori informazioni su Hara-Kiri e altre pubblicazioni delle Editions du Square, visitate il sito che ne ospita TUTTE le copertine. Qui sopra, alcuni numeri dell'edizione italiana, ribattezzata Kara Kiri, come veniva chiamato allora nel nostro paese il suicidio rituale giapponese.
Io posseggo 50 numeri dal 69 al 7 in perfette condizioni, quanto possono costare?
RispondiEliminaNon lo so davvero. Non mi occupo di mercato di vecchi fumetti e riviste.
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