sabato 14 novembre 2015

Cose che ho fatto in tempo a conoscere...

...e che i miei figli non hanno mai visto né sentito.

5. I CARATTERI MOBILI TIPOGRAFICI A PIOMBO

Quando studiavo Ragioneria all'Istituto Tecnico Sallustio Bandini di Siena ("Forza Istituto avanti avanti..."), per gli studenti del quinto anno era tradizione realizzare un giornale "satirico" (niente più di una bonaria presa in giro di compagni e professori, sotto il vigile controllo della Preside che interveniva all'occorrenza con insindacabili censure) da conservare come ricordo degli anni trascorsi in quella scuola. Quando arrivò il nostro turno feci naturalmente la mia parte scrivendo alcuni testi, buttando giù qualche disegno e azzardando delle caricature. Oltre a realizzare la copertina che potete vedere in basso. 
Il giornale veniva stampato in tipografia, grazie al sostegno di tutta una serie di ditte, negozi e agenzie bancarie che acquistavano spazi pubblicitari. Fu in quell'occasione che, per risolvere i problemi "tecnici" per la stampa del nostro "Zibaldone" entrai per la prima volta in una tipografia.
Le tipografie conservano forse anche oggi un certo fascino, ma quello che avevano all'epoca era decisamente particolare. Prima che arrivassero la fotocomposizione e, poi, il computer, le pagine di testo di libri e giornali venivano infatti composte manualmente, lettera per lettera, usando dei caratteri in piombo. I blocchettini metallici che avevano su un lato la lettere da "mettere in riga" erano conservati in mobili appositi composti da grandi cassetti, divisi per tipo e formato di carattere. Una volta scelto quello che si voleva usare per un certo lavoro, il cassetto veniva tirato fuori e appoggiato su un bancone. Da quello un addetto, il "compositore", sulla base dei fogli dattiloscritti forniti dal cliente attingeva tutte le lettere, i numeri e i segni di punteggiatura che gli occorrevano per comporre le righe di testo da stampare.


L'odore del legno si mescolava a quello del piombo e dell'inchiostro creando una miscela particolare che è ormai andata perduta. I provvidenziali siti online ci informano che quei caratteri tipografici erano fatti di una specifica lega composta da piombo, antimonio e stagno. Come ho detto, ogni blocchetto recava in testa una rappresentazione in rilievo e a rovescio di una lettera o di altri segni tipografici (numeri, punteggiatura ecc.). Ciascun carattere, dopo la stampa, poteva essere riutilizzato in una differente composizione e per questo la metodologia di stampa veniva detta "a caratteri mobili". La metodologia alternativa era costituita dall’incisione del testo su una lastra metallica (usata in ogni caso per le illustrazioni), che successivamente alla stampa non poteva dunque essere riutilizzata; in quel caso si parlava di stampa "a caratteri fissi". Le righe di una medesima pagina venivano inserite e opportunamente serrate in un telaio rettangolare. La composizione finita della pagina prendeva il nome di "forma" e veniva posta sul torchio, inchiostrata e utilizzata per la stampa.




Se quel metodo artigianale di stampa è ormai scomparso, ne restano (a chi li ha conservati) almeno i risultati. A dimostrazione di come già sui banchi di scuola io mi divertissi a parodiare le materie di studio (e la Letteratura in particolare) riporto in basso un "ritaglio" dalla pagina intitolata "Appunti del Solito Ignoto" che avevo scritto insieme all'amico Roberto Cini. Qualche pagina più in là mi ero anche dilettato a scrivere una parodia di racconto giallo (genere letterario che divoravo avidamente già da qualche anno), "Un cadavere in bagno". I protagonisti erano naturalmente i compagni di classe e il corpo insegnante, i cui nomi avevo oculatamente francesizzato: per esempio, il "rossino" e rotondo Antonio Brandi era diventato inevitabilmente il commissario Braindet.



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